Dottorato in Economia Aziendale e Management (10 borse, scadenza 5 settembre)

9 agosto 2012

Il 31 Luglio scorso, l’Università di Pisa ha messo a bando i concorsi per i dottorati 2012-2013:

http://dottorato.unipi.it/images/stories/concorsi_2012_2013/documenti/bando.pdf

Tra questi c’è il corso in Economia Aziendale e Management*. Si tratta di un corso di dottorato che riunisce i tre atenei toscani (Firenze, Pisa, Siena), finanziato dalla Regione Toscana (Programma Pegaso) e mette a concorso dieci borse triennali. La sede amministrativa del dottorato è presso l’Università di Pisa.

Ci sono le premesse per un programma di alto profilo e il collegio dei docenti è fermamente intenzionato a svolgere una selezione orientata ad accogliere allievi fortemente motivati a intraprendere la carriera accademica, a svolgere un periodo significativo di lavoro all’estero e a portare a termine un programma di ricerca dottorale di elevata qualità.

La scadenza per la presentazione delle domande è il 5 settembre. Nel bando sono contenuti tutti gli elementi per fare la domanda, ma sono a disposizione per ulteriori informazioni e chiarimenti.

 

 

* in alcune parti della documentazione si riscontra un’intitolazione diversa (Economia e Management) rispetto a quella ufficiale e corretta (Economia Aziendale e Management), ma si tratta dello stesso programma.


Back to blog

20 luglio 2012

Here I am again. … You didn’t miss me so much, hu?

In this period I did a lot of things, among which the most important one has been publishing the following:

And other stuff, but these ones are the more important, after a long investment. Please, take a look at the “ongoing research” cause I updated my research priorities.


Most downloaded article in 2010 in Marketing Theory

1 luglio 2011

Ecco qua. Il paper con Bernard sembra sia piaciuto, no?


Rieccoci: ora ci si mette anche la polizia ad espropriare le comunità

30 aprile 2011

Allora, abbiamo già detto che i nuovi sistemi di condivisione e co-creazione generano valore che gli agenti economici cercano di appropriare/espropriare e invece le comunità tentano di proteggere. Esistono molti esempi di comunità, alcune più spontanee ed “emergenti” (tipo Couchsurfing), altre fondate e gestite dalle imprese (TomTom Map Share) e altre ancora che sembrano relativamente neutrali (Zooppa, Mechanical Turk, ecc.). Le comunità “aziendali” hanno la particolarità di organizzare e coordinare il “lavoro” dei membri per incanalare le attività di generazione di valore in un processo che prevede da un lato un ritorno per i membri stessi e dall’altro un vantaggio per l’impresa.

Prendiamo il caso TomTom perché è molto semplice e al tempo stesso interessante, ma soprattutto perché costituisce un caso di appropriazione di tipo nuovo. Allora, l’utente del programma TomTom Map Share accetta di condividere i dati del proprio navigatore e di partecipare al programma attraverso segnalazioni sugli eventuali buchi del software o della cartografia in cambio di aggiornamenti e altri servizi a condizioni agevolate. Uno scambio ragionevole, parrebbe. L’impresa consegue un vantaggio duplice: una solida e fedele customer base e un meccanismo automatico e a basso costo (crowdsourcing) di aggiornamento del software. Niente di nuovo. Il vantaggio “vero” peraltro sembra essere che attraverso questo programma il valore aggiunto prodotto dai clienti attuali che partecipano al programma può essere scaricato sui nuovi clienti e indirettamente sui concorrenti: quota di mercato, premium price, ecc. Perciò, attraverso il contributo della community l’impresa riesce a trasferire sul mercato delle nuove installazioni un vantaggio di tipo differenziale rispetto ai concorrenti. Quanta parte di questo vantaggio, una volta tradotto in profitti, ritorna indietro alla comunità? Non si sa. Possiamo dire soltanto che la comunità riceve un certo grado di supporto, servizio, risorse, ecc., ma è molto difficile capire chi realmente ci guadagna in questo scambio: se si tiene conto che il sistema si basa su meccanismi di mercato e di scambio gerarchico (aziendale), c’è da credere che il grosso resti nel bilancio aziendale.

La novità è che da qualche tempo il mercato dei navigatori langue o addirittura si riduce e le imprese come TomTom cercano margini altrove, cercando di valorizzare il proprio patrimonio. Patrimonio di che? Di informazione. Informazione di chi? Ovviamente dei consumatori, nonché membri della comunità. A chi si vendono queste informazioni fornite dai consumatori finali? Allo stato. Perché? Per facilitare la gestione del traffico. E chi altro usa questi dati? Pare che in Olanda li abbia usati la polizia*. E perché? … udite, udite: per piazzare gli autovelox nei punti in cui più spesso si oltrepassano i limiti di velocità! E perché? Non certo per tutelare i cittadini (automobilisti, motociclisti, ciclisti e pedoni), ma per fare cassa perché i bilanci delle istituzioni pubbliche locali sono in rosso: problema comune. Assistiamo dunque a una forma di espropriazione (di natura del tutto ed esclusivamente economica) da parte dell’autorità pubblica che – in pratica – si comporta come se applicasse una tassa sul valore generato dalla comunità.

Ecco, questa è la vera novità: la co-creazione di valore comunitario è soggetta a tassazione una volta che il valore è trasferito dalla comunità al mercato e da questo ad altri mercati o addirittura allo stato. Perché se noi consumatori, ferventi sostenitori della condivisione e della co-creazione, siamo disposti ad essere scippati (in parte) dalle imprese o dagli hacker (vedi caso Sony Play Station) in cambio di vantaggi individuali o di gruppo che ricaviamo dalla partecipazione al sistema, di certo non siamo disposti a farci scippare dallo stato, dato che – parafrasando Luigi XIV – lo Stato siamo noi, ecchediamine!

http://www.forbes.com/feeds/ap/2011/04/27/business-telecommunications-equipment-eu-netherlands-earns-tomtom_8438128.html

http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/04/30/news/tom-tom_polizia-15555233/


Vacanze di Natale, avere, fare, Fromm e Csikszentmihalyi

3 gennaio 2011

E’ Natale e ci sono da fare i regali. Ok, salvo che per mia moglie e mia figlia, per me fare i regali è una gran rottura di scatole. Ad essere onesti anche riceverli non è tutto ‘sto gran che. Soprattutto perché quando voglio davvero una cosa la compro, sempre che rientri nel mio budget culturale, ideologico ed economico. Ad esempio, in effetti mi piacerebbero una casa e un’auto più grandi e costose, ma a) non ho tutti quei soldi da spendere e b) non lo ritengo corretto sul piano ideologico: quelle che ho vanno più che bene. Insomma a Natale vivo una tensione tra l’obbligo morale di dover fare i regali (e cerco di fare proprio quelli strettamente “necessari”)  e l’ansia di ricevere delle cose di cui non ho affatto “bisogno” (vedi uno dei post precedenti). In effetti da ragazzino ho letto “Avere o essere” di Erich Fromm e l’ho anche riempito di sottolineature da tanto che ero convinto che fosse una ganzata di libro. E questo spiegherebbe il mio disinteresse per i regali: dare e ricevere oggetti non mi sembra il miglior modo di festeggiare una ricorrenza. Di certo non è il modo per sentirsi migliori.

In compenso in queste vacanze ho “fatto” delle cose: ho fatto da mangiare, ho pedalato e ho fatto i compiti insieme a mia figlia. Abbiamo fatto i biscotti alla cannella, il pane di segale, la salsa guacamole, la spuma di prosciutto. Non tutto nella stessa cena, ovviamente. Ho ripreso la bicicletta e anzitutto ho fatto manutenzione, pulito i componenti, riparato una o due forature, ho cercato su internet notizie e informazioni su una bici nuova e – soprattutto – ho pedalato su e giù per la spiaggia e dentro la pineta per rimettermi in forma. E poi ho fatto i compiti con Greta: 5 parole con la GN, 5 con la GL, 10 con l’accento e così via. Fare i compiti significa realizzare una piccola cosa che prima non c’era e che si crea nel momento in cui un bambino esercita un certo sforzo mentale, un po’ di nozioni acquisite e la sua creatività. Una piccola cosa che appena “fatta” perde il suo interesse immediato e il suo valore in quanto l’importante dei compiti sta nello sforzo di farli e non nel risultato in sé e per sé. E infatti il voto della maestra non è un voto per il compito svolto, ma per il come è stato svolto: tant’è che copiare è vietato e farsi aiutare (troppo) dai genitori anche. Un po’ come per un biscotto alla cannella: il divertimento (il valore) sta nell’impastare e nel ritagliare la sfoglia con gli stampini. Se poi sono anche buoni, bene, ma chiedete a mia figlia se preferisce sgranocchiare il biscotto o sporcarsi fino ai gomiti per impastare uova, farina, burro ecc. E lo stesso dicasi per la bicicletta: il divertimento è riparare, pulire e pedalare, non “avere” o possedere la bicicletta. Anche se in questo caso, l’oggetto assume una certa importanza, visto quanto costano certe biciclette che ci sono in commercio e che – onestamente – mi piacciono assai.

Fare i compiti, cucinare e pedalare sono attività che hanno una dimensione negativa: per molte persone e in molte circostanze possono essere viste come un obbligo, una necessità, un costo o un sacrificio. Mentre per altre, o per le stesse persone in circostanze diverse, possono assumere il ruolo di passatempo e divertimento. In questa seconda prospettiva, queste attività di consumo costituiscono forme di esperienza che hanno a che fare con le proprietà dei prodotti coinvolti solo in parte, ma – anzi – hanno molto a che fare con la persona e con le sue continue trasformazioni. Gli ingredienti delle ricette, la bicicletta e le matite di Greta sono strumentali per lo svolgimento di attività che sono quello che veramente ci interessa e devono piegarsi alle nostre esigenze di cucinare e mangiare, pedalare e sentirci meglio e imparare. Questo ribaltamento di prospettiva avviene tutte le volte che riusciamo a vedere i nostri oggetti come uno “strumento” per l’ottenimento di una condizione personale migliore che dipende da quello che facciamo. Questo è il processo alla base del soddisfacimento dei bisogni che  Csikszentmihalyi chiama “esperienziali”, cioé quelle attività che svolgiamo con impegno e immedesimazione e che ci allontanano un pochino dalla vita quotidiana e contribuiscono a migliorare il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri, tipo leggere, fare collezioni, bricolage, giardinaggio, ecc. I bisogni esperienziali sono contrapposti da questo psicologo americano, molto famoso ma dal nome impronunciabile, ai bisogni esistenziali ovvero a quei bisogni che gli umani usualmente soddisfano attraverso il mero possesso: compro la bicicletta (auto, casa, barca, cravatta) nuova e mi sento meglio per il semplice fatto di averla. E qui si torna indietro a Fromm: avere per essere è una parte importante della nostra vita, ma non esaurisce il nodo del nostro benessere, altrimenti non si spiegano i ricchi depressi, i benestanti insoddisfatti e aggressivi e – soprattutto – le statistiche sul benessere e la felicità a livello aggregato che ci dicono che i popoli ricchi non sono necessariamente (molto) più felici di quelli poveri o quantomeno che la relazione tra disponibilità e felicità non è lineare.

Perciò, la lezioncina di queste vacanze di Natale è stata che “fare cose” è piuttosto soddisfacente: non cose esaltanti o straordinarie, ma piccole cose, ripetute e quotidiane. E’ paradossale scriverci sopra un post come questo e andare a cercare citazioni dotte, eh? Dovrebbe essere così evidente ed elementare, come guardare negli occhi tua figlia che impara a scrivere le parole con la GN.

Fromm, E., 1976, To have or to be? (trad. it.: Avere o essere?, Milano, 1977)

Csikszentmihalyi, M, 1975, Beyond Boredom and Anxiety: Experiencing Flow in Work and Play


Il consumatore difettoso, nel suo piccolo, … s’incazza!

16 dicembre 2010

Oggi pomeriggio (Santa Croce in Fossabanda, ore 17.30) sarà presentato il volume di Turiddo Campaini (Presidente Unicoop Firenze) che racconta la sua storia e di quella che è diventata la più grande cooperativa di distribuzione in Italia. Una storia che racconta come una persona e un’impresa siano stati in grado di declinare insieme logiche economiche e logiche umane. In un certo senso l’impresa Coop è un esempio di come la logica capitalistica sia addomesticabile e il mercato possa essere visto come uno dei contesti in cui la competizione tra le imprese trova un riscontro, ma non l’unico. I rapporti con le persone e con la società in generale costituiscono un severo banco di prova per le istituzioni che intendono crescere in modo “sostenibile” rispetto al contesto sociale di riferimento. Una corporate social responsibility che trova riscontro anche nella governance di questa cooperativa che continua a tenere insieme un nucleo direzionale di professionisti e un comitato di controllo espressione dei soci. In questo libro si sostiene anche la tesi che il ruolo dell’uomo all’interno del sistema economico e sociale non possa essere ridotto a quello di consumatore (o produttore o distributore).

Per di più domenica ho visto Report, l’ultimo di quest’anno, che ha trasmesso un ottimo servizio sul “consumatore difettoso” ovvero sulla condizione di perenne precariato dell’individuo nei sistemi capitalistici moderni: un precariato fatto di desideri e ambizioni fortemente incentivati dal sistema e un potere d’acquisto che non cresce mai abbastanza. Il tutto condito da un sistema di rilevazione delle prestazioni dei sistemi economici che focalizza sul Pil il quale, paradossalmente, si ingrossa anche quando si devono spendere dei soldi per riparare ai danni di uno sviluppo non sostenibile (la salute dei cittadini di Taranto, le condizioni dei corsi d’acqua intorno a Milano, ecc.).

Il collegamento tra questi due eventi mi è parso evidente in quanto in entrambi i casi emerge un approccio al consumatore che mi pare un po’ superficiale, anche se assolutamente ben intenzionato. O che comunque non tiene conto di quanta acqua sia passata sotto i ponti della ricerca e della pratica quotidiana. In sostanza si sostiene che il consumatore sarebbe una vittima, un alienato, destinato a consumare sempre di più e sarebbe necessario invertire questa tendenza. Esiste una verità in questa lettura, legata a tutti quei casi in cui il consumo acquista una valenza esistenziale primaria, vuoi per mancanza di alternative (affetti, cultura), vuoi per interesse precipuo delle istituzioni economiche che hanno bisogno che il cittadino consumi a più non posso. E’ peraltro vero che consumare significa anche (e forse soprattutto) costruire significati e legami sociali. Significa contribuire alla realizzazione di una società più aperta, libera ed espressiva. Significa liberarsi dal condizionamento della necessità ed esprimere la propria identità.

In entrambi i contesti (il libro di Campaini e il documentario di Report) si sostiene l’idea che l’individuo non può essere ridotto al mero ruolo di consumatore. Anzi, sarebbe necessario che l’individuo riprendesse coscienza dei modi più alti e sofisticati di realizzare se stesso e abbandonasse il consumo o lo riducesse. … e in base a quale fonte normativa o morale? Come si fa a convincere le persone che si sono guadagnate il diritto a un bel 50’ 3D (magari a rate) a rinunciarci? Proprio ora che, seppure con qualche sforzo, pensava di aver acquisito un certo status gli vogliamo dire che “No, ci siamo sbagliati. Il 50’ 3D non fa per te. Non è per il tuo bene”. … E’ difficile, eh?

Non solo, ma come dicevo, di ricerca ne è stata fatta negli ultimi 20 anni che dice alcune cosette che riassumo qui sotto:

  • lo studio dei consumatori di tipo psico-economico asservito agli interessi delle imprese e delle istituzioni è una tradizione robusta che fino agli anni ’90 costituiva il 100% della letteratura disponibile (a parte qualche voce fuori dal coro tipo Vance Packard, peraltro un giornalista)
  • dai primi anni ’90, grazie agli studi di matrice interpretivista (Hirschman et al., 1989; Belk et al., 1991), si comincia ad analizzare il consumatore dal suo punto di vista e la rilevanza manageriale dei risultati di questa ricerca non è più considerata una necessità, né un dogma. I risultati devono essere rilevanti per capire meglio il consumatore e se possibile aiutarlo a consumare meglio, ma dal suo punto di vista, non quello del sistema
  • si sviluppano filoni interessanti che studiano a) la resistenza dei consumatori, b) la trasformazione dei mercati, c) il marketing critico, d) il macro-marketing, ecc. per citare i principali. In tutti questi ambiti si osserva la realtà del processo di mercato con un’ottica “complice” del consumatore e non orientata al suo sfruttamento
  • Inoltre, cosa forse più importante, si dimostra che il consumatore, date certe condizioni, s’incazza. E anche parecchio: smette di comprare, cambia marca, boicotta, partecipa a campagne di contro-informazione, ecc. Insomma sviluppa quello che si definisce consumo politico (Micheletti et al., 2004)

E in effetti, una delle cose interessanti che il servizio di Report fa vedere è una certa capacità di risposta critica da parte dei consumatori, quella che noi ricercatori chiamiamo “consumer resistance”, ovvero la capacità di resistere alle lusinghe del mercato e del consumismo. Il caso dei bilanci di giustizia o delle transition towns stanno a dimostrare che il consumatore non è un dannato, una vittima oppressa dal sistema. I consumatori s’incazzano e sono in grado di produrre una forma di anti-consumo che si oppone o aggira il sistema di mercato, ma non lo rifiuta. Consumare è necessario e spesso divertente, con moderazione, il problema è cercare di farlo in modo equo e sostenibile. Anche i GAS (gruppi d’acquisto solidale) sono un esempio di questo tipo, una forma di reazione in cui i consumatori rifiutano di fare la spesa nei canali tradizionali e organizzano un sistema alternativo, ispirato a una maggiore autenticità e genuinità dei prodotti e alla tutela del territorio e dei piccoli produttori. Nel caso dei GAS, addirittura, il consumatore si trasforma e diventa una specie di distributore/intermediario/imprenditore che insieme ad alcuni (piccoli) produttori organizza dei modelli di business etico e sostenibile che competono con la distribuzione tradizionale. E’ una competizione civile e ideologica, ma anche economica e commerciale. Appunto, le due cose insieme.

In definitiva, i consumatori sono bravi e intelligenti e si organizzano dal basso in progetti e campagne che mirano a “trasformare” il mercato, a migliorarlo, insegnando alle imprese che comprare è un modo di partecipare alla vita sociale. E’ un’attività politica quasi più del votare. Qualcuno sostiene che dietro a queste parole ci sia una forma di “idealismo sociologico”, ovvero il ricercatore vorrebbe vedere una realtà diversa da quella in cui vive e quindi enfatizza gli aspetti che ritiene più idonei a trascinare il cambiamento desiderato. La risposta è sì: è proprio così. Io vorrei vedere un processo di mercato diverso da quello che vedo e siccome alcuni piccoli germi di cambiamento mi pare di intravederli, do loro risalto e cerco di far comprendere che essi costituiscono una delle strade per un mercato meno impersonale, più ideologico, più sociale e socievole. Un mercato di cui abbiamo bisogno e che deve soddisfare i nostri bisogni, non i suoi. Un po’ di questa impostazione “militante”, ancorché accademica, mi viene dall’osservare il lavoro degli altri e uno credo debba essere citato a mo’ di esempio e cioé Francesco Gesualdi, con il suo Centro Nuovo Modello di Sviluppo, i suoi libri, la sua onestà intellettuale.

Hirschman, E. C., Ed. (1989). Interpretive Consumer Research. Provo, UT, Association for Consumer Research

Belk, R. W., Ed. (1991). Highways and Buyways: Naturalistic Research From the Consumer Behavior Odyssey. Provo, UT, Association for Consumer Research.

Micheletti, M., A. Føllesdal, et al. (2004). Politics, products, and markets: exploring political consumerism past and present. New Brunswick, N.J., Transaction Publishers.


Avrei bisogno …

24 novembre 2010

Questa settimana a lezione ho spiegato i bisogni, ovvero il motore del capitalismo contemporaneo. E ho spiegato che noi umani ci accorgiamo di avere “bisogno” di qualcosa solo quando quel qualcosa ci manca. Mentre quando ce l’abbiamo non ne sentiamo il bisogno. Siamo strani forte, eh? … Ad esempio, vogliamo a tutti i costi una macchina nuova perché la nostra è vecchia e brutta e il nostro vicino di casa invece ne ha una nuova fiammante. Facciamo le cessione del V e chiediamo i soldi in prestito e finalmente compriamo la macchina nuova. Benissimo! Ma dopo qualche settimana manco ce ne accorgiamo più che è nuova: anzitutto non è “più” nuova, ma è nostra e quindi usata. In secondo luogo, essendo nostra, è diventata una parte delle nostre disponibilità: è la nostra macchina e fa parte della nostra dotazione standard. Infine, quell’antipatico del vicino nel frattempo ne ha comprata un’altra più grossa e più bella.

Insomma, il consumatore è condannato a “desiderare”. Ovvero a prendere in rassegna tutte le cose che non possiede e che invece vorrebbe. Che sente di meritare, insomma! E’ il desiderio e non il bisogno quello che ci mette in moto: è l’oggetto del desiderio che ci fa lavorare e/o firmare delle cambiali, anche se oggi si chiamano in modo più politicamente corretto. Condannato a desiderare e a mobilitare le proprie risorse e quelle del sistema: lavoro, produzione, risparmio, prezzi. Le metriche tradizionali che si muovono quando noi consumatori ci arrabattiamo per ridurre quel rodimento interiore che ci spinge a mettere in discussione noi stessi, il nostro equilibrio, a volte anche gli affetti. Quel rodimento che si affievolisce solo dopo un acquisto particolarmente ambito. … ma subito dopo ricomincia, prima sottile e marginale e poi sempre più intenso e dirompente.

… ecco perché la produzione sociale è la vera rivoluzione: ci mette in condizione di soddisfare i nostri desideri attraverso lo scambio e la condivisione. Senza pagare, senza soffrire e – anzi – attraverso il nostro contributo soddisfare i bisogni altrui. Riorientare la nostra condotta verso la produzione sociale significa sottrarsi al ricatto del desiderio, mandare affanculo il mercato e i suoi prezzi esosi e “partecipare” a un sistema di ricostruzione della società, meno economica e più orizzontale (peer-to-peer). E questo contribuisce anche a soddisfare quei bisogni esperienziali che passano spesso attraverso la condivisione di attività e pratiche sociali con altri soggetti.


Giving, receiving, sharing, … what else?

2 novembre 2010

La logica della contrapposizione tra domanda (consumatori e clienti) e offerta (fornitori) sembra superata. La letteratura di b-to-b e network, prima, e il dibattito più recente sui servizi e la service dominant logic ci stanno dicendo che il consumatore non è colui che paga un prezzo per avere accesso a un bene di cui apprezza il valore, valore che sarebbe determinato dai processi di trasformazione gestiti dalle imprese fornitrici. Il consumatore non è più quel tizio che sta al centro del modello di marketing management e  i cui bisogni sono analizzati, manipolati e infine serviti attraverso un valore prodotto a cavallo tra R&S e pubblicità. Il consumatore è diventato prima un partner e poi – udite udite – un co-creatore. Anzi, in base a ciò che dice Gronroos (2008) “il” co-creatore (vedi bibliografia).

Ne hanno discusso in tanti, sia seguendo le logiche d’impresa che hanno portato alla costituzione di piattaforme, risorse e comunità che hanno supportato le attività di marketing (Berthon et al., 2008) e di innovazione (Prahalad, Ramaswami, 2004), sia seguendo l’emergere di risorse collettive e spontanee che determinano le condizioni per una partecipazione dei consumatori alla co-creazione di valore che si riversa poi sul mercato attraverso l’attività delle imprese (Kozinets et al., 2008; Schau et al., 2009). Casi interessanti da studiare in questa prospettiva sono quelli che fanno capo al fenomeno del “crowdsourcing” (Jeff Howearticolo su Wired del 2006), ovvero l’utilizzo da parte delle imprese del “lavoro” di una molteplicità (crowd) di persone che “producono valore” su internet e anche fuori da internet. Da Facebook a MySpace, da Youtube a Flickr, a Innocentive, Innocrowding, Zooppa, Sellaband, ecc. ecc.

Insomma, i consumatori fanno cose che qualcuno utilizza per fare business e rivendere ai medesimi consumatori ciò che loro in parte hanno “co-creato” a fronte di un prezzo. Per di più si dimostra che quando un consumatore partecipa al processo di co-creazione si sente coinvolto e si identifica col prodotto al punto di essere disponibile a pagarlo di più (Franke, Piller, 2004). Quest’idea dell’utilizzo/sfruttamento del lavoro dei consumatori ha fatto stizzire qualcuno e ci sono voci critiche, teoricamente ed empiricamente fondate (Dujarier, 2008; Cova, Dalli, 2009) che sostengono che il presupposto della libera appropriazione del valore di mercato non può essere dato per scontato e – anzi – proprio le imprese che difendono strenuamente il diritto d’autore e il copyright dovrebbero essere più sensibili quando si tratta di utilizzare/sfruttare il lavoro dei consumatori, visto quanto s’incazzano quando noi consumatori scarichiamo la loro musica, il loro software, i loro film. … loro?

LORO? E’ proprio qui che casca l’asino. La musica, il software e i film non sono affatto “loro”. Sono nostri, almeno in parte. E sono nostri perché siamo noi che abbiamo generato il valore che – attraverso il mercato, ma anche altri sistemi – noi stessi assegniamo a questi prodotti. Non c’è lo spazio di sviluppare la teoria, orgogliosamente neo-marxista, che serve a spiegare il fenomeno in questa prospettiva, ma basta recuperare la letteratura sulla condivisione, il regalo e la solidarietà per capire da dove viene il valore di mercato. Basta prende un libro di Hardt e Negri (l’ultimo è uscito quest’anno) per capire dove va il mondo. Va verso un sistema che, grazie alle nuove tecnologie, recupera e riassegna legittimità a un sistema di scambio che non coincide con il mercato, ma che si basa su numerosi meccanismi: il regalo, la condivisione, le aste, il baratto e infine, ebbene sì, infine il mercato.

Prima di arrivare sul mercato i prodotti (una canzone, un software, un film, ma anche una lattina di Coca) sono passati attraverso molteplici processi che hanno una natura sostanzialmente orizzontale (c-to-c, peer-to-peer, produzione sociale, chiamateli come volete) che hanno contribuito a incrementare il valore delle risorse che servono a “vendere” il prodotto: il cantante o la band, il codice, le apps, i widget, le storie e gli attori. Siamo noi consumatori che diamo valore a ciò che poi ricompare sul mercato sotto forma di prodotto: la letteratura su queste faccende spazia dalla sociologia del dono (Mauss, Godbout, Caillè), all’economia (Marx, Zamagni), all’antropologia (de Certau) e non è possibile fare una selezione. Due articoli recenti sono utili per applicazioni legate al marketing e al consumatore (Mathwick et al., 2008; Kozinets et al., 2010).

Il processo di base di questo nuovo modo di intendere il ruolo del consumatore nel più ampio sistema di scambio, economico e non, è quello del regalo o della condivisione: noi consumatori o per meglio dire noi esseri umani, come dicevano Godbout e Caillé, anzitutto regaliamo o prestiamo o condividiamo le nostre risorse con gli altri e ogni tanto ci facciamo pagare. E’ il capitale e la rivoluzione industriale che ci hanno trasformato in lavoratori/consumatori che guadagnano e spendono e ci siamo convinti che la nostra natura sia questa: donne e uomini economici. Ma la natura umana è open source, copyleft, creative common, sin da quando le nostre mamme ci hanno regalato il nutrimento direttamente dal loro corpo. Mettiamo a disposizione degli altri le nostre risorse, come faccio io con questo blog, e lo facciamo gratis. Ci diamo delle regole di citazione più per narcisismo che per altro. Il motivo vero è che sappiamo bene che mettere in comune è meglio che privatizzare.

Ricostruire il ruolo del regalo e della condivisione e ridare legittimità teorica oltre che pratica a questo aspetto del processo sociale è molto importante e potrebbe servire a scrivere una teoria dello scambio meno condizionata dal mercato (quello tradizionale) e più promettente per lo sviluppo della società, addirittura più efficiente. Ci sono dei tizi che si occupano di queste cose (Marcoux, 2009; Belk, 2010) e il dibattito si fa facendo serrato. C’è bisogno di ricerca empirica e di casi, tanti casi che possano dimostrare quanto ricco ed efficiente sia il mondo del regalo e della condivisione rispetto al vecchio, tetro e spietato scambio di mercato.

Bibliografia

Belk, R. (2010) ‘Sharing’, Journal of Consumer Research, 36: 715-734.

Berthon, P., Pitt, L., Campbell, C. (2008) ‘Ad Lib: When Customers Create the Ad’, California Management Review, 50: 6-30.

Dujarier, M.A. (2008) Le travail du consommateur. De McDo à eBay: Comment nouscoproduisons ce que nous achetons. Paris: La Découverte.

Franke, N., Piller, F. (2004) ‘Value creation by toolkits for user innovation and design: the case of the watch market’, Journal of Product Innovation Management, 21: 401-415.

Godbout, J. (2007) Ce qui circule entre nous: donner, recevoir, rendre, Paris: Seuil.

Godbout, J., Caillé, A. (1992) L’esprit du don, Paris: La Découverte.

Grönroos, C. (2008) ‘Service logic revisited: who creates value? And who co-creates?’, European Business Review, 20: 298-314.

Hardt, M., Negri, A. (2010) Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano: Rizzoli

Kozinets, R.V., Hemetsberger, A., Schau, H.J. (2008) ‘The Wisdom of Consumer Crowds: Collective Innovation in the Age of Networked Marketing’, Journal of Macromarketing, 28: 339-354.

Kozinets, R.V., de Valck, K., Wojnicki, A.C., Wilner, S.J.S. (2010) ‘Networked Narratives: Understanding Word-of-Mouth Marketing in Online Communities’, Journal of Marketing, 74: 71-89.

Marcoux, J.S. (2009) ‘Escaping the Gift Economy’, Journal of Consumer Research, 36: 671-685.

Mathwick, C., Wiertz, C., De Ruyter, K. (2008) ‘Social Capital Production in a Virtual P3 Community’, Journal of Consumer Research, 34: 832-849.

Prahalad, C.K., Ramaswamy, V. (2004) The future of competition: co-creating unique value with customers, Boston, Mass.: Harvard Business School Press.


Autenticità

19 ottobre 2010

Qualche giorno fa mi hanno invitato a parlare di autenticità e turismo: qui. E’ stato divertente perché ho parlato di cosa pensa il consumatore dell’autenticità e di come cerca di raggiungerla quando decide di andare in vacanza, per un tempo più o meno lungo. Mi sono fatto spiegare alcune cose da Matteo Corciolani che di autenticità ne sa parecchio più di me perché ci ha fatto la tesi di dottorato, con applicazioni in campo musicale: un assaggio qui e qui. La ricerca di autenticità in campo turistico è interessante anche perché è proprio in questo settore che si è sviluppata la letteratura, prima che in altri, in particolare da Boorstin (1961) e MacCannel (1973). Poi il discorso si allarga ad altri settori fino a che se ne impossessano i consulenti (Gilmore, Pine, 2007).

La questione in campo turistico assume un rilievo del tutto particolare

perché vede incrociarsi numerosi piani attraverso i quali il consumatore ha l’opportunità di addentrarsi in esperienze più o meno autentiche a seconda delle risorse che l’ambiente gli mette a disposizione, ma anche in funzione del suo ruolo nell’utilizzare queste risorse, da solo o insieme ad altri. La discussione con gli operatori di settore è interessante perché si capisce come spesso sia difficile per chi opera sul territorio spogliarsi delle proprie radici e delle proprie idee pre-costituite per mettersi nei panni dell’utente e assecondarlo nella sua ricerca di autenticità. Una delle questioni più delicate, ad esempio, è quella del “fondamentalismo” e cioé di quella tendenza che spesso hanno gli operatori, ma anche i soggetti che governano il territorio o che forniscono servizi e strutture di supporto, a imporre la propria idea di autenticità ai consumatori/turisti.

Per fare un esempio, noi toscani (sempre che questa parola abbia

un senso che va al di là della geografia) pensiamo che il nostro territorio abbia delle proprietà straordinarie e pensiamo che i turisti stranieri, o anche solo di altre regioni italiane, dovrebbero apprezzarle secondo i nostri canoni e secondo le nostre regole, cosa che spesso non è e non può essere. Se la vediamo dal punto di vista opposto, il turista straniero, o soltanto padano, si è fatto un’idea della Toscana alla quale è affezionato ed è quella che vuole trovare quando viene da noi, indipendentemente che l’idea che si è fatto sia vera, veritiera, verosimile o anche un banale stereotipo. Bisogna anche capirlo, poverino, lui va al cinema e gli fanno vedere Sotto il sole della Toscana o Il ciclone, diversi, ma pieni zeppi di stereotipi assai poco credibili. In queste condizioni può capitare che il consumatore resti sorpreso e a volte negativamente dalla discrepanza che si viene a creare tra la sua immagine del luogo che sta visitando e i riscontri delle persone che incontra, soprattutto se cercano di smontare il “suo” ideale di autenticità per crearne uno nuovo. Ai consumatori non piace sentirsi dire che la loro idea di “prodotto ideale” non è veritiera e non risponde a quanto si è in grado di offrirgli. … Da qui a creare una realtà artificiosa e fatta apposta per un turista superficiale e ignorante ce ne corre, ma sarebbe comunque interessante approfondire anche questo lato (oscuro) della questione. Il termine fondamentalismo l’ho ripreso da Bernard Cova che di queste cose è piuttosto esperto (Cova, 2003; Cova, Cova, 2003; Carù, Cova, 2007). In particolare da questo video del 2009:

Le parole di Bernard sono molto chiare ed esprimono bene come le persone si avvicinino alle proprie esperienze autentiche, che diventano tali proprio se rispondono a un criterio di natura personale e soggettiva. Che può essere supportato da risorse, servizi e persone che dall’esterno aiutano il consumatore a perseguire una strategia esperienziale che – giova ripeterlo – resta personale e soggettiva. In particolare sono almeno tre i livelli in corrispondenza dei quali l’individuo cerca l’autenticità nelle proprie esperienze di consumo:

  1. Oggetti e risorse naturali che possiedono proprietà autentiche intrinseche: le opere d’arte di un museo (possibilmente vere), i monumenti, i paesaggi e le risorse culturali di un luogo. Oggetti e risorse che hanno proprietà metafisiche che si trasferiscono sulla persona, trasformandola, quasi che tornando a casa si portasse via il loro profumo e la loro energia. Esistono accessori e oggetti replica di scarsa autenticità intrinseca che però aiutano questo processo: il merchandising, i souvenir, la cartoleria dei bookstore dei musei, ecc.;
  2. Situazioni ed eventi che trasformano l’individuo e lo rendono diverso: trasformarsi significa mettere alla prova il proprio sè più profondo, la propria identità. In certe condizioni, non servono oggetti e risorse di per sé autentici: anche un fine settimana a Rimini o un viaggio a Las Vegas (uno dei luoghi meno autentici e più artificiosi che esistano, addirittura iper-reale com’è stata definita) possono aiutare questi processi di trasformazione. Processi che avvengono “dentro” la persona e non hanno a che fare con le caratteristiche del contesto;
  3. Altre persone: vivere un’esperienza insieme ad altri significa essere sostenuti e accompagnati nell’acquisizione della propria autenticità. A volte non bastano gli oggetti e le risorse: l’individuo non ce la fa a mettersi in discussione da solo e non riesce a provare un’esperienza autentica, a meno che non si trovi in gruppo (a un concerto, alla maratona di New York o in un trekking) con cui condividere un percorso. Qui scattano meccanismi tribali che consentono al soggetto di sviluppare una nuova forma di socialità e perciò di acquisire una nuova identità, anche se per un periodo limitato.

Questi tre piani possono agire a compensazione l’uno dell’altro: una scarsa autenticità delle risorse può essere compensata da rituali o forme di aggregazione tribale, ma non oltre un certo punto: una qualche coerenza tra le tre fonti deve essere garantita. Altrimenti si rischia di mettere a repentaglio la strategia del consumatore e rendere la sua esperienza di consumo oltremodo insoddisfacente. Qui sotto il breve video che abbiamo girato alla fine.

 

Bibliografia

  • Boorstin, D. 1961 The Image: A Guide to Pseudo-Events in America. New York: Harper and Row.
  • MacCannell, D. 1973. “Staged Authenticity: Arrangements of Social Space in Tourist Settings.” American Journal of Sociology 79 (3): 589-603.
  • Gilmore James H. and B. Joseph, II Pine (2007) “Authenticity: What Consumers Really Want”, Harvard Business School Press.
  • Cova B. 2003, “Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità come valori del marketing mediterraneo”, Milano, Il Sole 24 Ore
  • Carù A., Cova B. 2007. Consuming Experience. Routledge, London.
  • Cova V., Cova B. 2003. Les particules expérientielles de la quête d’authenticité du consommateur, Décisions Marketing, 28, pp. 33-42

Consumer culture theory: che cos’è?

14 ottobre 2010

Ho ricevuto il call for papers del convegno CCT 2011 e mi sembra una buona occasione per un post sull’argomento.

Gli studi sul consumatore nascono intorno agli anni ’50 e seguono un approccio strumentale all’attività di marketing delle imprese e delle istituzioni: psicologi e psicanalisti cercano di spiegare, prevedere e controllare il comportamento degli individui. Col tempo la ricerca si emancipa dalle esigenze del marketing e assume una propria valenza scientifica. Negli anni ’60 e ’70 si affermano gli approcci ancora oggi maggioritari, quelli della psicologia cognitiva, sostanzialmente.

Dalla fine degli anni ’80 in poi  si fanno strada nuovi orientamenti metodologici, teorici ed epistemologici che consentono di “vedere” il consumatore con occhi diversi: interpretivismo, naturalismo, metodi qualitativi, ecc. Con una prospettiva meno riduzionista e artificiosa rispetto al passato e più sensibile e attenta per il punto di vista del consumatore. In pratica, studiare il consumatore in questa prospettiva significa (anche) mettersi nei suoi panni e descriverne il comportamento in un modo che lo stesso consumatore potrebbe comprendere. Perciò non attraverso esperimenti ed equazioni strutturali, ma con l’osservazione e l’intervista diretta. Inoltre si studiano i rapporti tra i consumatori e come le relazioni inter-personali siano alla base di tante scelte quotidiane. E anche i condizionamenti sociali assumono un’altra rilevanza e si riscopre la dimensione tribale della società che sarebbe alla base di molti nostri comportamenti. In questa breve storia è importante notare che la teoria e le ricerca empirica si sviluppano in modo equilibrato negli Stati Uniti e in Europa e la comunità di studiosi che si riconosce in questa “scuola” è realmente internazionale e non del tutto allineata con il pensiero di marketing che invece è prettamente Nord Americano.

La consumer culture theory è un insieme di ricerche e approcci che seguono questa prospettiva ed è stata illustrata in un articolo ormai famoso che molti di noi sanno a memoria: Arnould EJ, Thompson CJ. 2005. Consumer Culture Theory (Cct): Twenty Years of Research. Journal of Consumer Research 31 (4): 868-82. Si trova sui database bibliografici. Chi ne vuole una copia me lo faccia sapere. La CCT studia fondamentalmente quattro cose: a) le modalità attraverso cui gli individui cercano ed esprimono la propria identità attraverso le scelte di consumo, b) le comunità di consumatori che si riconoscono in prodotti, marche, attività di consumo, c) il radicamento storico e sociale delle pratiche di consumo e d) la dimensione critica del consumo, ovvero come i consumatori a volte accettino e approvino l’offerta di mercato e altre – invece – esprimano posizioni critiche e antagoniste. Ed è su questi argomenti che si svolge in via primaria la mia attività di ricerca.

C’è anche un sito per saperne di più:
http://www.consumerculturetheory.org/

L’anno prossimo il convegno sarà organizzato dalla Kellogg (Northwestern) una delle scuole di marketing più famose e importanti, quella in cui insegna Philip Kotler, per intendersi:
http://kellogg.northwestern.edu/CCT6/